Claudio Magris
Il grande fiume della letteratura del Centro Europa sfocia a Trieste
«La diversità di Trieste si afferma soprattutto, dopo il ritorno all’Italia nel ‘54, quale diversità dall’italianità, quale scoperta – attuata, all’inizio, soprattutto dagli ex irredentisti d’un tempo – della propria “austriacità”, della propria anima mitteleuropea. Il mito asburgico – d’un impero la cui idea sembra rifulgere soprattutto quand’esso è scomparso e consistere quindi in un’assenza e nella nostalgia ch’essa evoca – diviene un punto di riferimento centrale della triestinità, una cifra essenziale del suo immaginario».
Angelo Ara, Claudio Magris, Trieste. Un’identità di frontiera (1982)
Con il suo studio Il Mito asburgico nella letteratura austriaca moderna del 1963 il germanista Claudio Magris avvia la riflessione sul mito dell’Austria Felix e sulla civiltà mitteleuropea. Ne indaga i rapporti con la cultura ebraico-orientale che diventano un potente catalizzatore dell’elaborazione letteraria nelle terre dell’ex impero e, in particolare, nella sua Trieste.
Danubio (1986), tradotto in più di trenta lingue, è il grande successo di Magris. Racconta un viaggio di tremila chilometri lungo le sponde dell’omonimo fiume e il concetto stesso di Mitteleuropa si fa concreto, rispecchiato dalle miriadi di piccole e grandi narrazioni che l’autore incontra seguendo il Danubio dalla vera sorgente alla foce nel Mar Nero.
L’attenzione di Magris si rivolge spesso ai comprimari, a chi non si adatta, a chi – in senso pieno – resta eccentrico. Tra questi: Il Conde (1993) portoghese pescatore di cadaveri, il servitore di Goethe Staedelmann (1988) e l’amico di Carlo Michelstaedter, il grecista Enrico Mreule protagonista di Un altro mare (1991). E ancora il pittore “matto” Vito Timmel, vissuto e morto in manicomio (La mostrai, 2001) e lo “strambo” collezionista di armi Diego De Henriquez.
La nostalgia della Defonta
Riandare a un passato idealizzato – la defunta monarchia – per far fronte a un presente deludente, più o meno seriamente
Carolus Cergoly
Il conte Carlo Luigi Cergoly Serili (Zrini) esordisce da futurista con ala raccolta Maaagaalà (1928). Compone versi in italiano, in veneziano e in un creativo “lessico triestino” che risente della lezione di Joyce, incontrato giovanissimo a Trieste, e che in seguito lo elogia, così come Pasolini, Zanzotto, Raboni, Giudici. La sua visione multiculturale, plurilinguistica , indipendentista va incontro ad aspre critiche e accuse di filo-slavismo negli anni ‘50.
Le opere di Cergoly, che appartengono all’ultima fase della sua vita, rappresentano un distillato delle sue idee, aspirazioni e nostalgie. Nel 1979 il romanzo Il complesso dell’Imperatore dona allo scrittore settantenne un improvviso successo che apre la strada a Fermo là in poltrona (1984) e L’allegria di Thor (1987), tutti dotati, come il primo, di un lungo sottotitolo inneggiante alla Mitteleuropa e al passato asburgico.
Giorgio Pressburger
Nato da una famiglia ebraica del ghetto di Budapest, sfugge a due violenti colpi d’ala della Storia: la deportazione nazista da bambino e l’invasione russa nel 1956. Al centro del suo originale itinerario artistico nella narrativa, nella drammaturgia e nella regia, ci sono le opere Storie dell’Ottavo distretto (1986) e L’elefante verde (1988) scritte con il gemello Nicola. Dopo la morte del fratello, pubblica La legge degli spazi bianchi (1989), metafora della solitudine. Nel 1991 è l’ispiratore del Mittelfest di Cividale.
Giorgio Voghera
Voghera è una sorte di emblema della Trieste letteraria. Da testimone ci racconta Gli anni della psicanalisi (1980) che travolgono la piccola comunità di intellettuali e scrittori; da impiegato assicurativo ci spiega causticamente Come far carriera nelle grandi amministrazioni (1959); da membro di una comunità perseguitata ed errante compila il Quaderno d’Israele (1967). Come artista raffinato e schivo pubblica un romanzo, Il segreto (1961), attribuendolo al padre.