1920
1921
«De mortuis nil nisi bonum»
«Dei morti non si parla che bene» scrive Joyce di Trieste a Ezra Pound nel 1920. Passata all’amministrazione italiana, Trieste ha perso il suo fascino, mentre Parigi è il centro culturale del mondo. Qui Joyce è figura di rilievo assoluto, gli intellettuali lo ammirano – tra tutti Sylvia Beach, proprietaria della “Shakespeare and Company”, pubblicherà Ulisse in volume nel 1922 – e lo sostengono finanziariamente. Finiti i tempi delle lezioni di inglese, Joyce si dedica solo alla scrittura e comincia a concepire un testo ancora più innovativo dell’Ulisse. Nel marzo del 1923, scrive a Miss Weaver (sua mecenate): «Ieri ho buttato giù due pagine … le prime che ho scritto dal Sì finale di Ulisse»: è l’inizio Finnegans Wake, cui lavorerà nei successivi diciassette anni.
James Joyce con una vistosa benda sull’occhio sinistro > gentile concessione MOLI Dublin
1920
1921
«A long … the … riverrun»
La vita a Parigi è funestata dalla malattia mentale di Lucia, della quale Joyce si ritiene in parte responsabile («Qualsiasi tipo di fiamma o di dono io possieda, è stato trasmesso a Lucia e le ha scatenato un incendio nel cervello» dice a un amico nel 1935) e dai suoi problemi di salute agli occhi. Finnegans Wake è pubblicato il 4 maggio 1939. Lo scrittore muore due anni dopo, alle 02.15 del 13 gennaio 1941, a Zurigo, in seguito alle complicazioni dovute a un’ulcera perforata.
Trieste è lontana, ma Joyce l’ha portata con sé, e lei gli parla dalle pagine di Ulisse, dal caos/cosmo di Finnegans Wake: la si sente negli strilli della bora che Joyce ricrea, nel richiamo delle prostitute di Cavana, nei nomi storpiati dei tanti triestini che vi compaiono.
La roccia di Itaca, la vela di Ulisse
Quando arriva a Trieste, Joyce ha ventidue anni, l’età di Stephen in Ulisse. Quando se ne va, nel 1920, ne ha ventotto, l’età di Bloom. Non sapeva che non vi avrebbe più fatto ritorno.
Louis Gillet, letterato e amico fedele di Joyce, così scrive, rievocando le loro chiacchierate parigine:
«Amava ricordare i bei tempi, e di preferenza parlava di Trieste. La sua mente si soffermava su questo argomento con gioia. Là, per un breve periodo, aveva goduto di momenti di pace; il fato gli era stato benevolo. Questa bella e accogliente città austriaca, per metà slava e per metà italiana, con l’allegria del sud della Francia, il miscuglio di lingue, l’animazione di un porto e già un sapore esotico e orientale (come la Venezia del Veronese) gli aveva dato un grandissimo piacere: non c’erano monumenti classici o resti romani, come a Spalato o Ancona. Ma c’era la roccia di Itaca, e sul mare, la vela di Ulisse».
[Louis Gillet, The living Joyce, 1979]