Virgilio Giotti
[Schönbeck Belli]
L’amico di Saba che con i suoi Colori rifà in poesia la pittura impressionista
Nato Schönbeck, in arte Giotti. Portato per il disegno, frequenta la scuola d’arte con gli amici pittori Guido Marussig e Vittorio Bolaffio. Per evitare la leva asburgica si trasferisce a Firenze nel 1907. Qui il suo talento si fa in poesia nel Piccolo canzoniere triestino (1914) in cui Giotti si sottrae alla lezione dannunziana, si avvicina a Pascoli e sceglie il dialetto, congeniale alla sua poesia visiva e descrittiva delle figure e degli ambienti triestini.
Nel 1911 conosce Nina Schekotoff con cui avrà tre figli. Due moriranno in Russia nella Seconda Guerra Mondiale. Nel 1919 torna a Trieste: vi apre un’edicola per poi trovare lavoro da impiegato. Paesaggi, affetti, nature morte sono il leitmotiv dei suoi versi e disegni. La sua raccolta di poesie in dialetto si intitola Colori. Appartato outsider molto apprezzato da Pier Paolo Pasolini, riceve il Premio Feltrinelli dall’Accademia dei Lincei nel 1957.
«Scusi, lei è un melanconico?» Così un giovane Saba attacca bottone una sera a un giovane Giotti. È subito amicizia, che durerà a lungo e sfocerà in sodalizio artistico: per Saba, Giotti disegna il logo della Libreria, cura e illustra Cose leggere e vaganti e la grafica dei dieci libretti in poche copie, anticipazione del Canzoniere del 1921. Saba pubblica con il marchio della sua Libreria la raccolta giottiana Il mio cuore e la mia casa (1920).
IN RIVA
De drio del rimitur de àuti e trànvai,
de drio dei alboreti dispossenti,
e dopo de la riva coi camini
dei vaporeti e i casoti e la gente,
xe el mar, xe el ziel. E mi vardo quel mar
e quel ziel nudi, grandi, e me consolo.
In quel mar, in quel ziel xe quel che vòio,
xe quel che bramo e speto.
* /re-mi-tur/ sm – disordine, confusione, baillame, pandemonio, scompiglio
Si dà di solito come buona la derivazione dal francese demitour (mezzo giro), ossia, l’evoluzione l’evoluzione compiuta in parata dai soldati della guarnigione napoleonica a Trieste, al suono dei tamburi, e lo strepito dei medesimi).
Umberto Saba, Virgilio Giotti, Carolina Wölfler, 1910 – coll. Centro Studi V. Giotti
Da Grado alla Dalmazia passando per Ponterosso, tuto un remitùr*
La lingua degli scrittori che usano il dialetto è arcaica e modernissima insieme: tradizione e sperimentalismo
Biagio Marin
Il musicale dialetto della laguna di Grado – stazione balneare e sognante intrico di isolotti e canali, barche da pesca e casoni con il tetto di paglia – diviene l’inconfondibile suono della sua poesia. Formatosi a Firenze, e poi a Vienna e a Roma, per un po’ finisce a dirigere proprio l’Azienda di Soggiorno di Grado. Dal 1942 al 1957 trova serenità e sicurezza economica a Trieste come responsabile della Biblioteca delle Assicurazioni Generali.
Lino Carpinteri e Mariano Faraguna
Un sodalizio varato nel 1945 e proseguito su “La Cittadella”, settimanale satirico del “Piccolo” fino al 2001. Raccontano una Mitteleuropa triestino-istriano-dalmatina popolana e vivacissima nelle Maldobrie (1966-1983), epopea della navigazione degli abitanti delle vecie provincie del defonto Impero, e nelle liriche di Serbidiòla (1964), parola nonsense derivata dall’incipit dell’inno asburgico in lingua italiana: Serbi Dio l’austriaco regno…
Claudio Grisancich
Dodicenne, resta affascinato dalla voce di una donna che legge una poesia in dialetto alla radio: è Anita Pittoni che lo accoglie presto nel suo salotto e, nel 1966, pubblica Noi vegnaremo, prima di una lunga serie di raccolte poetiche quasi tutte in dialetto. Impiegato come Marin alle Generali, la sua vita è tutta all’insegna della letteratura triestina: il rapporto, difficile e centrale, con Pittoni, una laurea su Renzo Rosso, la radio con Giorgio Pressburger.