Alla domanda «perché l’italiano?» che le viene rivolta spesso dal 2012, quando si è trasferita a Roma, e ancora più spesso da quando in italiano ha cominciato a scrivere, la risposta di Jhumpa Lahiri è «per amore».
I tredici saggi sulla traduzione e l’autotraduzione che compongono la raccolta appena edita da Einaudi declinano questa dichiarazione d’amore in incontri, scelte, occasioni, tutti fondamentali per quella particolare forma di riconoscimento di sé, di maturazione e mutamento, che la scrittrice definisce ‘destino’: una «sintonia» degli accadimenti dell’esistenza con «la rotta del proprio itinerario creativo».
Determinante, su tutti, l’incontro con la lingua italiana: un autentico colpo di fulmine durante un viaggio a Firenze nel 1994, un amore sbocciato per incantamento sonoro, che ha preteso tenacia e costanza fino alla piena conquista, fino alla padronanza delle «altre parole» – per riprendere il titolo del primo libro scritto in italiano da Lahiri (“In altre parole”, Guanda, 2015).
Seguono poi gli altri incontri, diventati occasioni per il perpetuarsi di questa metamorfosi personale oggettivata in scrittura: quello con i romanzi di Domenico Starnone che l’autrice ha tradotto in inglese (“Lacci”, “Scherzetto”, “Confidenza”, che in inglese diventano quasi una frase musicale: “Ties”, “Trick”, “Trust”), quello con le “Lettere dal carcere” di Antonio Gramsci, un potente antidoto al confinamento della pandemia. E infine l’incontro con un’altra lingua ancora, il latino delle “Metamorfosi” di Ovidio, poema amatissimo che l’autrice sta trasponendo in inglese, il cui tema diventa per Lahiri la metafora principale del processo del tradurre: «Mi sono rivolta a Ovidio, al mito di Apollo e Dafne, per descrivere l’iter che mi ha portata a diventare scrittrice in lingua italiana», perché le “Metamorfosi” , «governate dall’ambiguità, dall’instabilità e dal divenire altro, sono una metafora incisiva per rappresentare l’opera di conversione dei testi letterari da una lingua in un’altra».
Jhumpa Lahiri è nata a Londra da genitori bengalesi. Cresciuta negli Stati Uniti, vive ora tra Roma e New York e insegna scrittura creativa e traduzione letteraria all’Università di Princeton. Dopo la sua prima raccolta di racconti, “L’interprete dei malanni”, premiata con il Pulitzer e il PEN/Hemingway, ha pubblicato numerosi altri libri, diversi dei quali scritti in italiano: “In altre parole”, “Dove mi trovo”, “Racconti romani” e la raccolta di poesie “Il quaderno di Nerina”, tutti pubblicati da Guanda.
Sabato 31 maggio Jhumpa Lahiri dialogherà con Enza Del Tedesco, che insegna letteratura italiana contemporanea presso il DISU – Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Trieste, co-organizzatore dell’evento, e Riccardo Cepach, responsabile del Museo LETS, presso lo Spazio Forum del museo, dove i temi della traduzione, dell’autotraduzione, della creatività letteraria declinata in linguaggi diversi sono di casa e riecheggiano di sala in sala attraverso le parole e le riflessioni di Italo Svevo, di Fulvio Tomizza, di Theodor Däubler, di James Joyce e di tutti gli altri scrittori che hanno sperimentato la loro espressività in forme differenti.
L’evento è a ingresso libero fino ad esaurimento dei posti.